Un secondo asteroide centauro noto, potrebbe avere degli anelli dopo Chariklo e si tratterebbe del già noto 2060 Chirone.
Nuovamente ci troviamo a parlare di anelli attorno ad altri corpi celesti, ma questa volta restiamo nel nostro Sistema Solare e precisamente ci dedichiamo alla categoria di corpi celesti chiamati asteroidi centauro. I centauri sono corpi dalla duplice natura: sono infatti asteroidi, ma con una propensione a perdere materiale di superficie come le comete e sviluppare quindi una chioma.
2060 Chirone fu il primo a essere scoperto nel 1977, ma la sua duplice natura fu confermata solo nel 1988. La sua luminosità variava, indice di una dispersione dei materiali più leggeri e quindi volatili sulla superficie. La collocazione dei centauri è fra le orbite di Giove e Nettuno, ma si ipotizza che la loro formazione sia avvenuta nella Fascia di Kuiper e poi siano stati spinti più all’interno a seguito di perturbazioni orbitali all’interno della Fascia stessa. I centauri non si dirigono mai verso il Sole come le comete, ma hanno un perielio molto accentuato rispetto ai pianeti.
Un’altra differenza fra una cometa e un asteroide centauro sta anche nelle dimensioni: mentre per una cometa siamo sempre nell’ordine di alcune decine di km, per questi centauri possiamo anche superare abbondantemente i 100 km e oltre (Chariklo arriva a un diametro di circa 275 km).
Lo studio presentato da J.L. Ortiz (Istituto di Astrofisica di Andalusia – Spagna) e colleghi, mostra come le occultazioni delle stelle sullo sfondo portino a pensare che il centauro 2060 Chirone abbia un sistema di anelli. Essendo corpi lontani ed essendo molto deboli, gli anelli non possono essere osservati direttamente.
Ortiz fa notare che nel corso delle passate occultazioni stellari durante le osservazioni di 2060 Chirone, gli osservatori hanno notato gli oscuramenti delle stelle prima e dopo l’occultazione, ma li hanno attribuiti ai getti di materia volatile che si elevano dal centauro.
Da quando però, sono stati scoperti gli anelli di Chariklo, si è voluto indagare più a fondo sulla natura degli occultamenti attorno a 2060 Chirone. E’ proprio la natura sfuggevole degli anelli (complice anche la grande distanza) che rende difficile questa osservazione, quindi non stupisce che l’occultamento delle stelle posteriori siano state interpretate come getti di materia dalla superficie di 2060 Chirone.
La dinamica di anelli planetari è uniforme, se così possiamo dire: circolari e praticamente piatti. Il loro orientamento nello spazio rimane costante nel tempo, e se questo orientamento è inclinato rispetto all’eclittica, noi spettatori sulla Terra osserveremo il sistema ad anello più aperto e meglio illuminato in alcuni momenti, e più chiusa e meno illuminata in altri momenti. Il pianeta Urano fornisce un esempio di questa natura degli anelli e la loro possibilità di essere visti dall’osservatore.
Ma non possiamo ottenere tali immagini chiare da Chariklo e 2060 Chirone; sono troppo piccoli, nonostante siano i più grandi di tutti i centauri. Quando guardiamo la loro luce, tutto ciò che possiamo vedere è un punto la cui luminosità e colore contiene tutte le informazioni che abbiamo su quello che sta succedendo in quei mondi così lontani. Se hanno anelli, i cambiamenti dell’angolo di prospettiva in cui vediamo gli anelli, possono rendere la luminosità di un oggetto e darci l’impressione che essa cambi nel corso del tempo. Tale variazione di luminosità è, infatti, stata osservata con 2060 Chirone, ma è stato precedentemente attribuito alla sua duplice natura di cometa. Se il materiale che compone gli anelli ha una composizione nettamente diversa dal materiale che costituisce la superficie del mondo congelato, osservandolo in tempi diversi si possono prendere le caratteristiche spettrali (in particolare quelle di acqua) e capire meglio la sua struttura.
Ortiz e il suo team, alla fine, propongono un’idea interessante: “Gli asteroidi centauro con anelli avrebbero un colore più blu o più neutro rispetto agli altri centauri a causa del contributo spettrale degli anelli, che è diverso da quello del corpo principale. Infatti, le varie distribuzioni dei colori attribuibili ai centauri mostra un gruppo di questi oggetti appartenenti al colore rosso e un gruppo di centauri di colori più neutro (tra cui 2060 Chirone e Chariklo).”
A questo link il PDF dello studio di Ortiz e colleghi.
(Fonte: planetary.org )
Varie ed eventuali.
1. In questi due giorni di fine gennaio, ci sono due tristi ricorrenza astronautiche per NASA. Il 27 gennaio 1967, durante un’esercitazione in rampa, muoiono gli astronauti Virgil Grissom, Edward White e Roger Chaffee; erano gli astronauti della missione Apollo 1.
A causare la morte dei tre, fu un incendio all’interno della cabina; per questa esercitazione, gli astronauti si trovavano effettivamente all’interno della capsula in rampa e non in un simulatore. La capsula venne chiusa dall’esterno e poi pressurizzata. Il fuoco divampò in fretta e si appurò che gli astronauti morirono in 15 secondi. Per depressurizzare la cabina e salvarli sarebbero occorsi 90 secondi. Il fuoco si scatenò dopo che una scintilla scoccò da un cavo elettrico; l’aria della cabina era satura di ossigeno per simulare le condizioni che gli astronauti avrebbero avuto in orbita. Un’aria così densa di ossigeno non fece che favorire ed accelerare la combustione. L’ossigeno è il migliore dei comburenti. Per Grissom, White e Chaffee non vi fu scampo.
2. L’altra triste ricorrenza occorse il 28 gennaio 1986, quando lo Space Shuttle Challenger (STS-51L) dopo soli 73 secondi di ascesa, esplose per un danno poi accertato sul SRB (Solid-fuel Rocket Booster). Una guarnizione di tenuta del propulsore laterale destro, a causa delle temperature eccessivamente basse della notte prima, si era eccessivamente irrigidita, questo aveva impedito alla guarnizione di chiudere adeguatamente il raccordo. Fumo caldo cominciò a fuoriuscire dalla giunzione, fino a riscaldare il serbatoio esterno posto sotto la navetta e pieno di carburante idrogeno e ossigeno liquidi. L’eccessivo calore ha portato all’esplosione del serbatoio e alla rottura strutturale della navetta.
Si appurò in seguito che gli astronauti morirono per l’impatto con l’acqua della cabina che toccò l’Oceano alla ragguardevole velocità di 330 km/h. Ma solo tre dei sette membri dell’equipaggio erano ancora vivi al momento dell’impatto, gli altri quattro morirono entro pochi secondi per la violenta depressurizzazione della cabina. I tre che sopravvissero alla depressurizzazione attivarono le tute e il consumo di ossigeno delle stesse è compatibile con il tempo e la velocità di caduta della cabina (2 minuti e 45 secondi), non è dato però sapere se gli stessi fossero comunque coscienti durante la caduta.
I sette membri dell’equipaggio del Challenger (STS 51L) erano: Michael John Smith, Dick Scobee e Ronald McNair, Ellison Onizuka, Christa McAuliffe, Gregory Jarvis e Judith Resnik.
Dal Cosmo è tutto … CIELI SERENI
Francesca